19.3.11

La psicoterapia come pratica non scientifica.


Questa è solo un pezzo finale dell'intervista di Raffaele Cascone a Vincent Kenny,
 secondo la sua visione che appartiene al mondo del paradigma Costruttivista (la mente dell'uomo che costruisce il significato del mondo, dei suoi confini e i limiti e senso delle sue esperienze, per fare una breve sintesi).

Premetto che la concezione della Psicoterapia come non assistita da scientificità sia della sua teoria, che soprattutto della sua procedura pratica (la sua somministrazione), appartiene a molti studiosi, appartenenti a differenti aree e paradigmi di base.
Daltronde, sappiamo bene quanto sia comune questa situazione:

un paziente visitato da un paio di psichiatri, risulta affetto da disturbo bipolare tipo II, con elevazione della quota ansiosa, insonnia e attualmente in fase depressiva.
La cura è quella risultante da protocollo internazionale: somministrazione di stabilizzanti dell'umore, antidepressivi e antiansia.

Ora, lo stesso paziente decide di affrontare un percorso psicoterapeutico e si rivolge al servizio psicologico della sua Asl, che fissa un appuntamento (al buio), con una psicologa psicoterapeuta (a contratto), al costo di 70 euro per  le prime dieci sedute (quota  del ticket).

La psicoterapeuta, di formazione interpersonale strategica, propone una terapia breve, basata su un contratto terapeutico di durata di circa 20 sedute da concordarsi volta volta.

Il paziente, dopo le venti sedute, diluite in circa 4 mesi, non sente di essere giunto a risultati che lo soddisfano, e si rivolge al suo medico di famiglia per avere notizie in merito alla possibilità di effettuare una psicoterapia più alla sua portata, sia come tempi, che come mentalità, come lui la descrive.

Il medico gli dice che cercherà di assumere informazioni da colleghi e alla fine, lo mette in contatto con uno psicologo di formazione sistemica, attualmente in libera professione, costo sedute di durata di 60 minuti, 85 euro.

Questa volta, sembra che le cose funzionino meglio, anche se il costo è assai elevato per il paziente, ma almeno non ci sono limiti e contratti in scadenza e la valutazione del cambiamento e dei suoi tempi, è lasciata alla regolazione dei due attori volta volta.

Insomma: se dieci psichiatri finiranno per convergere su una diagnosi molto simile e idem per la terapia, dieci psicoterapeuti, probabilmente proverranno da formazioni differenti e finirannno per attuare procedure assai differenti, sia quanto alle valutazioni cliniche, che per i contesti, interpretazioni e tecniche per  ottenere i risultati prefissati.

Nella psicologia e psicoterapia comportamentale e in parte di quella interpersonale, in genere le valutazioni e gli obiettivi che lo psicologo o il medico effettua, sono discusse "in chiaro" con il cliente-paziente, nel senso che si ricorre ad un contesto assai franco, in cui il professionista mette in chiaro quello che "vede" del soggetto e cosa pensa che non funzioni e quello che invece funziona. In questa fase occorre essere quasi spietati, nel senso che quello che uno vede lo deve mettere in conto, senza omettere deliberatamente nulla. Il soggetto non può essere ingannato, tacendo sulla reale valutazione del professionista. Proprio da questa franchezza, si dipana poi il rapporto e il contesto successivo, oppure viceversa il rapporto si chiude.

Segue quindi una discussione e da qui poi si attuano quelle modifiche che si rendono necessarie, quindi si passa ad illustrare il percorso per ottenere il cambiamento o comunque gli obiettivi di cura e riabilitazione (che nella psic. del comportamento sono spesso dei veri e propri  training mentali e pratici, che poi dovranno trasferirsi nel contesto reale di vita).

Ad esempio, il paziente crede di non poter controllare la sua ansia, e gli si dimostrerà che è in grado di influire su di essa in diversi modi; ad esempio cominciando a seguire una metodica di iperventilazione forzata, che lo porterà a esperire i sintomi tipici del panico (dispnea, tachicardia, sudorazione, parestesie, derealizzazione etc.).
Quindi se è in grado di aumentare l'ansia, la buona notizia è che con una tecnica respiratoria differente potrà diminuirla! E si inizia il training per controllare l'ansia. La seduta può durare anche due ore, e spesso non ha un limite di tempo prefissato, perché si deve terminare con un almeno parziale risultato.

Quello che per me e quelli come me, che seguono un modello quasi totalmente centrato sulla psicologia del comportamento, opportunamente integrata da alcuni aspetti di cognitivismo, (pochi e solo se si accordano con i modelli comportamentali), differisce dal pensiero di Vincent Kenny, non è basato sulla considerazione che la Psicoterapia è una procedura non obiettiva, né tantomeno scientifica (almeno secondo Karl R. Popper), punto ormai assodato da tutti, quanto il fatto che il modello teorico di base da cui attingiamo gli strumenti per influire sul comportamento e sul pensiero, emozioni e corporeità dell'altro (che non necessariamente si definisce paziente), può essere ascritto a un grado maggiore o minore di scientificità.

Ad esempio, la psicoanalisi e tutte le teorie e modelli psicologici basati sul simbolismo, si situano al grado più basso di contenuto scientifico;

per contro, la moderna psicologia del comportamento, (che certamente si occupa anche dei contenuti del pensiero, dello stato emotivo, del tipo di contesto ed ambiente in cui si situa l'azione del soggetto, discostandosi molto dall'originale modello teorico di Watson e Skinner), è il modello teorico assistito da maggiore scientificità (che non significa anche migliore efficacia).

Ora, il  Costruttivismo non è certo in generale un paradigma particolarmente pensato da chi si pone problemi riguardo alla scientificità, sia teorica che procedurale, quanto piuttosto un modello che si pone il problema di dare un significato alle azioni e pensieri dell'uomo.
In sè, la definizione suona assai bene, direi che fa molto effetto, ma alla resa dei conti, con quali metodi, strumenti e tecniche, concretamente si attribuisce un significato all'interno di un contesto, cioè si giunge alla costruzione di un significato?

Per me, comportamentista e cognitivista, la questione è certamente quasi opposta: il significato è bello e costituito, devo solo capire, o se vogliamo, aiutare a tirar fuori il significato che l'altro ha dentro di sé; non devo costruire nulla ma solo capire e lasciar passare il senso come la persona (cliente, paziente, conversante) lo porta. E in questo, faccio estrema attenzione alla realtà della persona: non mi interesso di significati simbolici, ma ascolto e prendo puntualmente (naturalmente valutando il livello di funzionamento cognitivo ed espressivo della persona) sul serio, cioè tengo per buone le asserzioni, proponimenti, desideri (attuali) del soggetto.

Non mi sogno nemmeno di rapportare il disagio per la perdita di una relazione con un fidanzato, a oscuri significati simbolici, su cui scaricare il disagio e i sintomi manifestati (ad esempio ansia acuta, insonnia, e altro ancora).

E dico di più: ancor prima di altre valutazioni, cerco di valutare la familiarità del soggetto per i disturbi che lamenta (ad esempio depressione, dolori diffusi, capogiri, mal di testa, ansia eccetera), proponendo, se del caso una visita specialistica con lo psichiatra. Sarebbe infatti del tutto inutile e dannoso privare una persona che soffre disturbi psichici dei presidi medici che servono alla bisogna. Non si va molto lontani in niente se si soffre di ansia acuta o di depressione (magari mascherata sotto forma di sintomi viscerali, stati dolorosi diffusi, eccetera), ancor meno si farà poco di buono se pretendiamo di poter far star meglio una persona sofferete di sintomi psichici, credendo di poter influire magicamente con parole, sulla sua psiche. No, se ci vogliono i farmaci, questi devono, devono, essere prescritti e somministrati.

Diversamente, ci imbattiamo in situazioni come questa:
A.E. maschio. 36 anni, dopo una serie di crisi acute di panico, non diagnosticate dal suo medico di famiglia, questi si indirizza verso una psicologa presso la asl, e con questa, inizia una serie di colloqui volti a capire di cosa sta soffrendo e perché. Risultato: dopo due mesi di colloqui, la sua situazione si mantiene stabile, cioè con improvvisi attacchi di ansia acuta e a volte di veri e propri attacchi di panico, che lo terrorizzano, lasciandolo annichilito.

Finalmennte giunge all'attenzione di uno psichiatra che lo visita al pronto soccorso e inizia una cura con Depakin,  Xanax tre volte al dì e citalopram gradualmente fino a una compressa e mezzo al dì.

Dopo un periodo di ulteriori sofferenze, a distanza di 40 giorni, gli attacchi di ansia acuta sono cessati, permane sudorazione eccessiva, a volte vampate di calore e tachicardia sempre più leggera. Ha ripreso la sua attività di impiegato di banca con buon stipendio. Lo psichiatra ha purtroppo espresso la sua convinzione che A.E. sia affetto da una forma familiare di depressione endogena, con instabilità dell'umore a prevalenza familiare (positività per disturbi psic da parte paterna, materna solo aspetti fobico ansiosi).

Ha ripreso i colloqui dalla psicologa della usl, dopo averla informata che stava seguendo la cura farmacologica, (altrimenti quella avrebbe creduto ai suoi poteri magici delle sue parole).

Insomma, quello che voglio dire è semplice: nessuno è onnipotente e se ci troviamo davanti una persona che soffre e molto, sarebbe bene prendere sul serio i suoi sintomi e consigliare una visita psichiatrica, chiaro?

Se proprio non si vuole consigliare la visita, almeno lo psicologo non medico, dovrebbe avvertire il suo cliente-paziente, che i suoi sintomi potrebbero avere una natura familiare e potrebbero giovarsi anche di cure farmacologiche. Non è infatti raro che il/la cliente-paziente, rifiutino visite mediche o psichiatriche, e comunque non sopportino di sottoporsi a cure con psicofarmaci.
In questi casi, occorre valutare la necessità e urgenza delle cure (teniamo presente che lasciare senza copertura farmacologica un instabile dell'umore o un soggetto sotto attacchi di panico, significa lasciarlo esposto agli effetti devastanti dei sintomi, che complicano le possibilità future di ripresa.

C'è un ulteriore aspetto che emerge da quanto ho scritto all'inizio, ricordate (seguo un modello basato sulla psicologia  del comportamento)?

Che la psicologia del comportamento è anche quella che offre maggiori strumenti, tecniche e nel servizio pubblico, non occorre che in pochi casi, iscriversi nella sezione degli psicoterapeuti.
A parte il problema che si è già sollevato e prima o poi giungerà al pettine: se oggi uno si laurea in specialistica, ad esempio diventa un laureato in psicologia clinica, deve abilitarsi anche come psicoterapeuta per fare lo psicologo clinico? Certamente no. Ma allors: a cosa serve richiedere a chi vuole fare concorso o domanda alla Usl, l'abilitazione come psicoterapeuta?
Corollario: se una Asl vuole assumere uno psicologo dell'infanzia, farà un bando dove si mette: laurea specialistica in psicologia infantile o dello sviluppo, iscrizione all'Albo da più di 5 anni e altri elementi di valutazione (libri, corsi di perfezionamento etc.).  Non occorre una specifica abilitazione alla psicoterapia: infatti, lo psicologo clinico o dell'infanzia laureato con la specialistica è già abilitato a compiere tutti gli atti e pratica clinica specialistica, chiaro?
Se la Asl lo richiede, lo fa per un ulteriore requisito, ma dubito che quando qualcuno farà ricorso, il Tar gli darà torto. Potrebbe riconoscere che non si può escludere dal concorso lo psicologo specialista, in quanto l'eventuale abilitazione alla psicoterapia è subordinata alla sola necessità di questa, per lo svolgimento dei compiti previsti presso la stessa Asl.

In altre parole, le ragazzette che si laureano da una decina di anni a questa parte, conseguono un titolo specialistico, che di per sé include la pratica della
diagnosi, cura, e riabilitazione in ambito psicologico. Se lo psicologo e o il medico vogliono anche abilitarsi alla psicoterapia, possono farlo, ma per questo, il medico non diverrà uno psicologo, né tantomeno, la pratica della psicoterapia si sovrappone all'esercizio dell'attività specialistica di psicologo (che tra l'altro, cura con la psicologia, vale a dire con le conoscenze, strumenti e metodi che derivano dal suo bagaglio formativo specialistico.
Se poi si abiliterà alla psicoterapia, allora potrà curare anche con il bagaglio delle conoscenze e saper fare della psicoterapia (che al momento non è definita né dalla legge, né tantomeno esistono un elenco di pratiche ed attiuvità che sicuramente sono individuate come psicoterapia).
Insomma, se qualche ragazzetta si deciderà ad impugnare la non ammissione al concorso dell'Asl in quanto non abilitata alla psicoterapia, basti che convinca il Tar che per l'attività richiesta presso la Asl, lei è a posto con il suo titolo specialistico, non necessitando di ulteriori abilitazioni (la professione sanitaria riconosciuta è quella di medico e di psicologo, non esiste una professione di psicoterapeuta, così l'esenzione IVA vale per le prestazioni dello psicologo ma anche per quelle di psicoterapia (se effettuate da medici e psicologi abilitati).

Ma, lo ripeto, il punto è che per lavorare in modo completo nella clinica, basta la laurea specialistica in psicologia clinica e/o infantile o dello sviluppo, come la chiamano, in quanto lo psicologo specialista può fare diagnosi, cure e riabilitazioni in ambito psicologico specialistico di competenza.

Solo un diffuso e attento lavaggio del cervello effettuato durante i corsi universitari e poi durante i master e tirocini, ha persuaso le ragazzette che si laureano a flotte ogni anno in psicologia specialistica, che per poter concretamente lavorare, devono spendere almeno 8-10 mila euro per quattro anni, per conseguire l'abilitazione in psicoterapia.

Idem, riguardo gli ECM, cioè il lucroso business dei corsi di aggiornamento.
Per tutti i professionisti sanitari esiste l'obbligo di aggiornarsi con costanza e regolarità, ma per coloro che svolgono solo attività libero professionale, sono liberi nel modo di aggiornarsi (vale a dire che non devo accumulare alcun  credito ufficiale, garantito dal timbro rilasciato da qualcuno), cosa che deve seguire lo psicologo che lavora anche o solo per il Servizio Pubblico.

Devo confessare che questi nuovi laureati mi fanno un poco pena per la loro approssimazione, la convinzione di ottenere di più riducendosi ad un chewingum che si attacca sotto le suole di quelli che contano. Se va bene a loro...
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R.C. Quali sono i limiti della psicoterapia verbale?

V.K. In genere la psicoterapia arriva solo al trattamento della superficie del testo, perche' non ha a che fare col corpo, Tanti terapisti credono che, standosene seduti col paziente, restando al livello verbale, la parola riesca a toccare.

La terapia. non riesce a muovere niente finché non determina un esperienza viscerale per il paziente e per le persone che sono di rilievo per lui.
Sto tendando di creare un cammino con varie fermate lungo il percorso, usando anche tecniche degli attori, per far uscire fuori abitudini viscerali nascoste. Chiedo per esempio di disporsi in posizioni fastidiose per sedersi, in configurazioni fisiche irritanti e porre attenzione sull'esperienza.

In terapia abbiamo superato i metodi cosiddetti catartici: la catarsi non é costruttiva: é un modo di esprimere una vecchia convinzione e di fissarla, non costruisce una novità non é un modo di sostituire, di migliorare
Le esperienze catartiche ed anche quelle attraverso droghe come LSD e ketamina etc. sono come le esperienze traumatiche: disintegrano e si reintegrano o solo dopo anni di psicoterapia o mai. Abbiamo bisogno di un altro approccio: un intervento che crei una nuova struttura che a sua volta non vada in conflitto con la vecchia.

Vincent Kenny è il Direttore dell’Istituto di Psicologia Costruttivista di Dublino e il Direttore dell'Accademia Costruttivista di Terapia Systematica di Roma.

http://www.sistemica.org/