15.8.10

Influenze Ambientali Precoci e Modelli Imitativi di Violenza.

1.3     Influenze Ambientali


Il cervello dei primati non umani e soprattutto quello dell'uomo, è sottoposto ad un considerevole modellamento postnatale che si protrae fino alla piena maturità sessuale e anche successivamente, fino al termine della seconda decade di vita. Il ruolo dell'ambiente, in questa fase è fondamentale nel modulare le connessioni neurali che si realizzano tra le aree cerebrali, in relazione ad una scanzione temporale predeterminata.

Un periodo critico, o sensibile, è una delimitata parte della vita di un organismo, in cui vengono stabilite e consolidate specifiche connessioni assonali, che divengono solitamente irreversibili e in cui il ruolo giocato dagli stimoli e dalla loro successione nel tempo è fondamentale; si parla anche di connessioni guidate dall'esperienza, a significare che gli stimoli ambientali si susseguono secondo una scanzione temporale precisa, fornendo l'innesco per la guida dell'accrescimento assonale verso le aree attivate dagli stimoli.

In definitiva, un periodo critico di sviluppo è un particolare aspetto della plasticità neuronale, in cui fattori genetici e comportamentali si combinano durante tappe temporalmente definite, determinando una tipica connessione dei sistemi neurali coinvolti, che risultano calibrati, cioè connessi e regolati funzionalmente in una modalità tipica (Lorenzi, 1997). I periodi critici sono interdipendenti, nel senso che le calibrazioni in un circuito preparano la successiva tappa che interesserà altri circuiti e vie nervose, secondo un modello a cascata. Pertanto il deficit di regolazione non tende a generalizzarsi oltre un certo limite, dal momento che le connessioni sembrano seguire un andamento modulare, interessando aree cerebrali che veicolano funzioni specializzate.

Riferendoci al ruolo degli stimoli ambientali, si deve porre attenzione alle loro caratteristiche, cioè qualità e intensità, tempo di inizio, durata e cessazione: in questo senso, gli stimoli sono giudicati adeguati quando rispettano i parametri selezionati nel corso dell'evoluzione della specie.

Konrad Lorenz ha introdotto il concetto di periodo critico nell'ambito dello studio del comportamento, riferendolo alle osservazioni sui piccoli di oca selvatica che avevano mostrato come, in un ristretto arco di tempo susseguente alla schiusa delle uova, i pulcini sviluppano preferenze per un individuo cui sono esposti, attivando comportamenti di seguitazione. Gli etologi che dopo Lorenz si sono interessati ai fenomeni di imprinting e gli psicologi dello sviluppo, hanno concordemente rilevato che tale periodo non era così rigido come descritto da Lorenz; hanno pertanto proposto il termine più elastico di "periodo sensibile" e di "finestra di opportunità", per indicare un arco temporale piuttosto ampio, in cui le esperienze possono comunque aver luogo. Dal momento che in letteratura si è continuato ad usare il termine originale, in questo lavoro si impiegherà il termine periodo critico (p.c.) riferendolo al significato di periodo sensibile.

Lo studio del canto degli uccelli è stato per decenni al centro delle ricerche etologiche e neurobiologiche e seppure con le ovvie difficoltà di comparazione con il linguaggio dell'uomo, ha fornito una serie di indicazioni sui p.c. relativi allo sviluppo del linguaggio e altre funzioni complesse. Una delle acquisizioni che ha dimostrato un grado notevole di generalizzazione in tutte le specie indagate tramite l'osservazione o sperimentalmente riguarda la possibilità di prolungare il p.c. quando le normali esperienze non hanno avuto luogo nei tempi previsti dall'evoluzione o quando hanno avuto luogo in modo alterato rispetto agli stimoli tipici della specie e dell'ambiente di sviluppo. Pertanto sono possibili due modalità di alterare i ritmi di sviluppo di un individuo:

 - alterando la sequenza temporale in cui gli stimoli sono presentati, che può realizzarsi in modi diversi: ad esempio gli stimoli sono anticipati o posticipati oppure sono presentati per un periodo di tempo troppo breve o lungo;

 - gli stimoli sono presenti ma sono alterati qualitativamente o quantitativamente, ad esempio sono troppo deboli o al contrario troppo intensi o nell'insieme sono scoordinati e non raggiungono una raffigurazione strutturante;

E' stato rilevato che in queste situazioni, le esperienze tardivamente sperimentate hanno permesso il recupero della funzione deficitaria ma solo parzialmente e con permanenza di problemi comportamentali, inoltre è stato constatato che le esperienze tardive avevano maggiore efficacia quando erano realizzate mediante una continua ripetizione degli stimoli o con una stimolazione più intensa o con entrambe le modalità. In questo lavoro si considererà la possibilità dell'esistenza di un p.c. per l'attaccamento e le sue implicazioni quando è disturbato da condizioni ambientali sfavorevoli.
L'importanza della relazione madre-bambino è stata rimarcata da sigmund Freud (1940) come... "unica e inalterabile nel tempo, come primo e più forte oggetto d'amore e prototipo delle successive relazioni d'amore". Ainsworth (1973), definisce l'attaccamento "sviluppo di una relazione affettiva tra bambino e uno specifico caregiver che dura nei diversi contesti spaziali e temporali".
I neonati normalmente sviluppano una relazione affettiva con i loro caregivers tra 6 e 12 mesi, in coincidenza con la capacitazione di generare aspettative riguardo il comportamento altrui (Lamb e Malkin, 1986). L'attaccamento secondo le osservazioni di Ainsworth (1967 e 1978), ha un significato anche qualitativo, potendo consistere di una forma sicura e una insicura. La forma sicura corrisponde alle caratteristiche relazionali del caregiver, quali la capacità di rispondere ai segnali del neonato in modo caldo e tempestivo; è una capacità che non necessità di essere appresa perché è stata selezionata dall'evoluzione ma alcune madri possono essere deficitarie a causa di disturbi e alterazione del rapporto madre-bambino durante la loro stessa crescita. L'evoluzione ha predisposto aree cerebrali deputate al riconoscimento delle espressioni delle emozioni del volto e a rispondere ad esse e ci sono evidenze che le donne dispongono di funzioni ulteriormente deputate a rispondere ai segnali dei neonati: l'attaccamento non coincide con il semplice contatto fisico, calore e vicinanza ma implica uno scambio di stimoli e risposte che coinvolgono aree cerebrali specificamente deputate che si attivano durante il corso di interazioni emozionali coinvolgenti e profonde, diverse da quelle che generano solo attrazione fisica e sessuale.
La qualità dell'attaccamento influisce su molti aspetti dello sviluppo psicologico: sulla modalità di proiettarsi verso il mondo ed esplorare l'ambiente, il concetto di sé, la regolazione emozionale e la capacità relazionale.
 - per regolazione emozionale, come funzione dell'attaccamento si fa riferimento alla capacità del caregiver di ridurre gli stati d'ansia e di paura che il neonato esperisce durante situazioni nuove o in corso di rapido cambiamento e la sollecitazione a esplorare l'ambiente favorendo sentimenti di sicurezza, condizione che Bowlby definisce "esplorazione da una base sicura".
 - la promozione del senso di autoefficacia è l'altra importante funzione dell'attaccamento e si realizza tramite la capacità del caregiver di rispondere in modo tempestivo e caloroso ai segnali del bambino, ai suoi bisogni e alle sue intenzioni.
Se queste risposte sono correttamente emesse, il bambino rafforzerà il suo senso di autoefficacia e competenza emotiva e sarà in grado di padroneggiare le condizioni avverse e tollerare la frustrazione. Lo sviluppo di capacità relazionali e sociali prende l'impronta delle qualità dell'interazione con il caregiver, nel senso che il bambino tenderà a stabilire relazioni esportando il modello relazionale con il suo caregiver. In condizioni normali, cioè quando si sono realizzate le tre condizioni necessarie per un corretto sviluppo dell'attaccamento,
 - relazione regolare e costante
 - reciprocità delle interazioni
 - capacità del caregiver di amministrare l'ansia del bambino

entro la fine del primo anno di vita si osserva lo stabilirsi di un forte attaccamento qualitativamente sicuro ma non sempre le cose vanno per il verso giusto, principalmente quando un neonato nasce in un ambiente povero, in cui è probabile che si associno altre condizioni sfavorevoli per la possibilità di un attaccamento sicuro.
Un interrogativo che ha impegnato i ricercatori era capire se la qualità dell'attaccamento era stabile nel tempo o se poteva trasformarsi. Teti et al: (1996), hanno rilevato in uno studio su un piccolo campione di bambini, che l'attaccamento sicuro dei primogeniti in età prescolare può diventare insicuro quando intervengono situazioni che alterano la relazione madre-bambino, in particolare quando la madre è soggetta a stati depressivi e ansiosi e per la nascita di un fratellino. Lo stato depressivo si è rivelato il più influente e frequente tra le condizioni correlate al cambiamento mentre il cattivo andamento della relazione coniugale ha mostrato scarsa influenza quando un solido attaccamento sicuro si era stabilito.
Quando un neonato non ha possibilità di sviluppare un iniziale attaccamento e cresce in condizioni di deprivazione affettiva è comunque in grado di svilupparlo in una fase successiva ma la sua qualità, in questi casi, dipende da una serie di fattori. Lo studio longitudinale di Chisholm (1995 e 1998) su bambini rumeni allevati in orfanatrofi in condizioni di notevole deprivazione affettiva e successivamente adottati da famiglie canadesi, ha contribuito a chiarire una serie di quesiti in merito alle conseguenze di un mancato attaccamento iniziale.
 - I bambini adottati antro i tre mesi e comunque prima dei quattro mesi di età, ai controlli effettuati a due anni e tre anni avevano sviluppato tutti un attaccamento sicuro con i loro genitori adottivi, quasi tutti appartenenti al ceto medio o medio-alto, buona istruzione ed elevata motivazione all'adozione di un bambino.
 - I bambini adottati all'età di un anno o più, per circa un terzo hanno sviluppato attaccamento sicuro mentre i rimanenti due terzi hanno mostrato attaccamento insicuro e circa la metà mostravano relazioni disorganizzate e comportamenti bizzarri.
Dunque, quando si verificano condizioni avverse l'attaccamento si realizza comunque ma richiede uno sforzo ulteriore e si producono delle conseguenze negative, (Maccaby, 1983). La qualità dell'attaccamento in ogni modo, non è l'unica variabile che influisce sullo sviluppo socio-affettivo, su tratti e disposizioni di personalità e sull'emergenza di problemi in infanzia: alcune funzioni, come la percezione di sé, richiedono il possesso di processi mentali che si sviluppano dopo che il primo fondamentale attaccamento ha avuto luogo (Sroufe et al., 1999) e in definitiva, sembra più probabile che esso possa costituire un modello, un prototipo per le relazioni strette dei primi anni di vita ma non necessariamente per tutte le relazioni future.
I p. c., sono anche definiti "plasticità dipendente dall'esperienza", a significare che l'esperienza precoce nel corso di un delimitato arco temporale, denominato "finestra temporale di opportunità", guida il rimaneggiamento delle connessioni sinaptiche delle cellule cerebrali in modo particolarmente sensibile proprio durante una certa tappa precoce di sviluppo; trascorsa questa fase, la sensibilità tende a diminuire e pur essendo comunque possibile influire successivamente sulla plasticità, occorre una stimolazione più intensa e protratta nel tempo.
Ci sono due tipi di esperienze che influiscono sulla plasticità neuronale:
 - experience- expectant
 - experience-dependent
La prima si riferisce alle normali esperienze tipiche dello sviluppo di una specie e che hanno normalmente luogo in quanto sono parte dell'ambiente di vita della specie (ad esempio la visione, udito, acquisizione del linguaggio). Questo tipo di esperienza si basa, a livello neurofisiologico, sulla "potatura selettiva" delle sinapsi in sovranumero alla nascita. La malattia denominata "X fragile", che dipende da un gene difettoso per la codifica di una proteina che elimina le sinapsi in eccesso, dimostra che l'eccesso di sinapsi rappresenta un fattore causale di danno neuroanatomico e funzionale.
La seconda forma riguarda le esperienze specifiche di un singolo individuo all'interno del suo ambiente fisico, sociale e culturale; la plasticità qui è veicolata da nuove sinapsi che permettono di originare ricordi e modalità di problem solving che troveranno impiego nelle situazioni future. Si tratta di esperienze che si collegano con la memoria a lungo termine e con l'apprendimento, due funzioni molto complesse che condividono alcune aree, in particolare la centralina dell'ippocampo. Ogni individuo, in base agli stimoli presenti nell'ambiente, ritrae esperienze che influiscono sulla sua capacità di conoscere il suo stato emozionale e quello altrui, reagire ad entrambi, regolare lo stato attentivo e motivazionale, sulle sue modalità di analizzare i dati e risolvere i problemi e sulle competenze e abilità.
Un tema che richiede di soffermarsi ulteriormente concerne la complessa funzione indicata con il termine attenzione, che non è affatto una proprietà scontata del SNC quanto piuttosto una funzione che soggiace a una serie di processi di cablazione e regolazioni verosimilmente inseriti in p.c. precoce e che può essere affetta da numerose anomalie. Recentemente Harmon e Cox (1997) hanno proposto un modello che collega la funzione di processazione delle emozioni nel lobo frontale e la sua influenza sull'attenzione. La regione frontale sinistra sarebbe deputata a processare e regolare le emozioni definite "approach behavior", orientate all'avvicinamento agli oggetti mentre il destro sarebbe associato alle emozioni "withdrawal behavior", che determinano allontanamento e ritiro.
Stati emozionali in risposta a stimoli esterni quali calma o irritabilità sarebbero influenzati dalla capacità del bambino di dirigere l'attenzione verso stimoli che generano benessere distogliendola da quelli che suscitano noia e irritazione; la differente capacità attentiva contribuirebbe a determinare asimmetrie nei lobi frontali in relazione alle diverse esperienze emozionali del proprio contesto di sviluppo. Neonati cresciuti con una madre depressa hanno mostrato difficoltà nell'acquisizione del controllo emozionale (Dawson et al., 1994 e Sameroff et al.,1982) probabilmente anche per l'insufficiente stimolazione ricevuta in ordine alla discriminazione attentiva di stati emozionali; è stato osservato infatti che la condizione depressiva materna si manifesta anche nella riduzione espressiva degli stati emozionali ostacolando il processo di kindling emozionale del neonato e più in generale, interferendo negativamente nella comunicazione madre-bambino.
Dawson et al. (1994), basandosi su studi di neuroimaging, hanno osservato che l'attivazione asimmetrica dei lobi frontali sembra essere una funzione indotta dagli stimoli ambientali precoci, una experience-expectant, realizzata principalmente dalle risposte del neonato agli stati emozionali materni e hanno presupposto che per tale via, la corteccia frontale si vada cablando in modo da poter regolare lo stato di eccitazione (arousal) ed emozionale in relazione a quello del caregiver. Pertanto non sono solo influenti le condizioni genetiche alla nascita ma anche quelle ambientali concorrono a configurare la regolazione funzionale dei lobi frontali che tende a diventare stabile e difficilmente reversibile.
Le esperienze precoci di abuso, maltrattamenti fisici ed emozionali influiscono negativamente sull'ippocampo secondo un meccanismo di retroazione proposto da LeDoux (1998). In situazioni di stress l'amigdala, deputata al riconoscimento di segnali ambientali elicitanti emozioni, istruisce l'ipotalamo affinché segnali al'ipofisi di attivare il rilascio dei fattori stimolanti la secrezione di ormoni dello stress. L'ippocampo, formazione coinvolta nella memoria a lungo termine e nell'apprendimento, nelle situazioni di stress è deputato alla valutazione cognitiva (appraisal) e se valuta la situazione come positiva, invia segnali che retroagiscono sull'amigdala, inibendola ma se lo stress permane per lungo tempo non riesce a mantenere la sua attività, entra in sofferenza ed inizia a degenerare, con evidenti perdite di dendriti e in seguito anche di corpi cellulari. Autopsie su cervelli di bambini che hanno subito abusi ripetuti e su soggetti affetti da disturbo post traumatico da stress hanno rivelato una chiara riduzione dell'ippocampo dovuta a perdita di sinapsi e corpi cellulari. Tra i sintomi tipici di questa condizione sono la perdita di ricordi legati agli eventi stressanti e difficoltà nel memorizzare eventi successivi ad esso connessi; tipicamente i soggetti che hanno vissuto un forte trauma emozionale provano notevoli difficoltà a rievocarlo, esempio di adattamento comportante conseguenze negative che si può cercare di limitare mediante la somministrazione di sostanze che vanno ad agire sull'ippocampo, inibendone l'attività in modo da prevenire la sua degenerazione conseguente a stress.
Si sono da tempo consolidate evidenze che il feto reagisce alle manifestazioni di stress della madre e può subire effetti negativi riguardo lo sviluppo motorio e affettivo postnatale e sappiamo che traumatismi fisici si possono ripercuotere sul feto e possono derivare da una serie di cause incidentali o volontarie:
 - tipicamente le cause incidentali possono essere prenatali, cadute accidentali della gestante, incidenti domestici e stradali; perinatali, condizioni che si verificano in prossimità del parto, ad es. cordone ombelicale lungo che si avvolge sulla testa e sul collo fel feto e altre condizioni che implicano anossia e sofferenza neurologica; neonatali, che ricomprendono le complicazioni che insorgono dopo il parto.
 - le cause volontarie sono da ricondurre a violenza sulla gestante, tipicamente violenza domestica e sul neonato o a condizioni di negligenza grave e trascuratezza. Altre cause possono dipendere da malattia, condizioni di povertà e isolamento della madre.
Si può affermare che tutte le condizioni fisiche ed emozionali che hanno un impatto negativo sulla madre e in generale sul caregiver, si ripercuotono sul feto e sul bambino distorcendone il corso dei periodi critici, anche se al momento non è accessibile una conoscenza precisa dei fattori causali e dei loro effetti.
Ad oggi non ci sono studi neurofunzionali sistematici sull'effetto dell'esposizione di bambini a violenza sia diretta che indiretta, come la visione di programmi violenti, sull'attività dell'ippocampo ma sapiamo che i bambini che hanno sperimentato abusi hanno sviluppato disturbi caratteristici, quali difficoltà di memoria, inattenzione e scarsa abilità nell'impiego di strategie di apprendimento che possono sottendere anomalie dell'ippocampo e che si possono confondere con disturbi tipici dell'infanzia, quali disturbi dell'apprendimento, di condotta e deficit attentivi, che hanno diversa origine eziologica.
Nella cultura umana è stato osservato da molti autori, appartenenti a differenti discipline, che il processo di socializzazione e acculturazione dell'individuo ha assunto caratteristiche di eccessiva artificiosità e costrizione, nel tentativo di conformarlo alle continue e crescenti richieste di un ambiente sociale complesso e in continua trasformazione, sottoponendolo ad un training cognitivo stressante e inadeguato alle tappe di sviluppo predisposte dall'evoluzione, favorendo, in soggetti predisposti, lo sviluppo di sintomi e disturbi da maladattamento (vedi il complesso fenomeno denominato “hikiko mori” nei giovani giapponesi, caratterizzato da una particolare forma di ritiro sociale).
I comportamenti fisicamente violenti non costituiscono una forma tipica che ricorre frequentemente nelle relazioni sociali, dove prevaricazione, coercizione e sopraffazione sono realizzate con manifestazioni aggressive non fisiche. Differenze di ruolo e di potere implicano condizioni che favoriscono la riduzione dei gradi di libertà individuali e situazioni di prevaricazione: proprio simili differenze riducono l’uso di violenza fisica all’interno di un gruppo, sul presupposto che gli individui possono realizzare i loro piani con impiego di minima coercizione fisica. All’interno di una famiglia il genitore può usare coercizione per fini educativi, in un’azienda il superiore può assumere provvedimenti contro gli inadempienti e lo Stato può usare violenza e impiegare armi per mantenere l’ordine pubblico.
L’aggressività dipende anche dal particolare ruolo e funzione che un individuo sta svolgendo: minacciare l’esistenza di un cucciolo, in quasi tutte le specie scatena reazioni aggressive materne di notevole portata, che in circostanze diverse non sarebbero attuate: nell’esempio, l’aggressività è una risposta al servizio dell’altruismo ma occorre capire cosa si intende per altruismo in biologia e psicologia evoluzionista.
Si è già detto che altruista è un comportamento che riduce la possibilità di riprodurre i propri geni, a vantaggio dei geni altrui in base al presupposto teorico che ogni individuo tende a massimizzare la trasmissione dei propri geni. Uno dei problemi principali per Wilson e Dowkins era proprio quello di spiegare i comportamenti altruistici, frequentemente osservati in natura, in quanto la teoria dell'evoluzione, fondata sulla fitness individuale, sarebbe falsificata. Dowkins individuò nella “ regola di Hamilton “ la chiave per interpretare il comportamento altruistico, che ricomprese in una teoria che denomino “ selfish gene”, che muovendo dalla regola di Hamilton, spiegava l'altruismo in termini di fitness inclusiva, dove inclusiva significa che parallelamente alla fitness individuale, per l'individuo è importante anche la propagazione dei geni dei conspecifici.
Sappiamo che i geni che un genitore riproduce in ciascun figlio rappresentano il 50% del suo corredo e più figli genera e più aumenta il numero di geni che gli sopravvivono; ne consegue che, in natura, un individuo che ha generato un solo figlio, sarà riuscito a far sopravvivere solo metà del suo corredo genetico e per questo impiegherà molte energie per cercare di farlo sopravvivere ma non altrettante energie impiegherà per la sopravvivenza di un ipotetico quarto o quinto figlio e più in generale, quanto maggiore è il numero di figli e quanto minore è l’investimento che un genitore è disposto a fare in ciascuno di essi per assicurarne la sopravvivenza. In altre parole le cure diminuiscono al crescere del numero dei figli, che è come dire che il comportamento altruista si attenua quando i geni sono stati tramandati in numero elevato.
In natura i comportamenti altruisti sono in realtà comportamenti guidati da un istinto di sopravvivenza individuale e di specie: in fin dei conti due conspecifici condividono un numero di geni assai più elevato in confronto a qualsiasi altro individuo di specie diversa, constatazione che sta alla base dell’altruismo e della solidarietà. Ridurre le proprie possibilità di sopravvivenza a vantaggio di un estraneo rappresenta un comportamento sufficientemente egoista almeno quel tanto che basta a bilanciare il numero di geni condivisi.



1.4   Modelli imitativi: media e aggressività.



Si ricomprende nel termine media, una eterogenea serie di mezzi, atti a veicolare informazioni. Si distinguono in:
pubblici, come Internet, dove chiunque può inserire informazioni e formarne i contenuti;
privati, cinema, TV, libri e giornali, dove, a prescindere da chi ne detiene la proprietà, solo alcuni formano i contenuti;
multimediali, quando veicolano contenuti in base a differenti canali sensoriali;
interattivi, quando l'utilizzatore può interagire a vari livelli e secondo diverse modalità.

Preliminarmente si segnala che le ricerche sull'argomento, sono state, nel corso degli anni, assoggettate a critiche metodologiche che ne hanno posto in luce la scarsa validità e affidabilità. Nello specifico è stato opposto che i campioni non erano generalizzabili alla popolazione, la definizione di vilolenza era troppo ampia o al contrario troppo specifica, gli indici di violenza ricavati dai programmi TV erano basati su criteri soggettivi e nebulosi, infine le interpretazioni dei dati erano falsate dalla serie di problemi appena descritti e da altri fattori. Ad esempio, gli studi di Gerbner e Gross (1976), che all'epoca richiamarono anche l'attenzione dei media, ad una analisi critica si sono rivelati essere basati su ipotesi non verificate né falsificabili; la loro affermazione ipotetica che le informazioni cui una persona accede tramite la TV, ne condiziona l'interpretazione della realtà in relazione alla durata rappresenta una ipotesi non falsificabile, più una tesi che una ipotesi, che sarebbe insensato dimostrare perché non potrebbe che essere verificata.
Anche gli esperimenti basati sul modello neurofisiologico, ad esempio Shachter (1964), Berkowitz e Alioto (1973), solo per citarne alcuni, sono stati assoggettati a critiche metodologiche che ne hanno minato la validità: iniettare adrenalina o creare condizioni artificiose di arousal non sembra un modello ecologicamente validabile.
Gli studi dedicati al tema specifico dell'aggressività e violenza nei bambini, collegate al mezzo televisivo, che hanno rivelato maggiore validità nel tempo, sono stati quelli di Albert Bandura e collaboratori (1961, 1973), successivamente racchiusi in un modello unitario denominato “Learning theorie”, tradotto con “modello dell'apprendimento sociale”. Un esperimento semplice ed eseguito in un contesto naturale, che chiunque poteva riprodurre con facilità è divenuto un classico della ricerca psicologica. A un gruppo di bambini di un asilo fu mostrato un filmato in cui due adulti, uomo e donna, si scagliavano contro un pupazzo riempito di sabbia, in modo da poter oscillare ritornando in posizione verticale quando veniva colpito con calci e pugni. Dopo la visione del filamto i bambini venivano fatti entrare nella stanza dove giocavano ed era stato previamente collocato lo stesso pupazzo. Il gruppo di controllo era costituito da bambini che erano posti di fronte al pupazzo senza aver visto il filmato. I bambini del gruppo sperimentale iniziarono a colpire il pupazzo, mentre quelli del gruppo di controllo non mostrarono comportamenti diversi rispetto agli altri giocattoli. In varianti successive, il filmato mostrava adulti che dopo aver picchiato il pupazzo erano ricompensati con caramelle oppure sgridati: anche in queste varianti, i bambini mostrarono di seguire i comportamenti dei modelli, colpendo con più forza quando il modello era ricompensato o inibendosi quando sgridato. Ai modelli adulti, sono stati sostituiti personaggi di cartoni animati, con stessi risultati; inoltre colpire un pupazzo identificato con il proprio sesso è risultato più facile, segnalato dal minor tempo necessario a vincere l'inibizione e i maschi si sono rivelati più aggressivi, sferrando più colpi e con più forza. I risultati, pur con le opportune cautele in relazione alla generalizzazione dei dati alla popolazione, dimostrano che una rappresentazione televisiva di comportamenti aggressivi e violenti, in base a criteri condivisi, è risultata efficace a modellare il comportamento dei bambini, in assenza di riproduzione immediata dei gesti.
Gli studi di Bandura, furono oggetto di numerose interpretazioni sui reali meccanismi psichici coinvolti e racchiusi nel generico termine “imitazione”. Bandura avanzò l'ipotesi che il bambino sia predisposto a riprodurre i comportamenti osservati in base a uno schema mentale che include la valutazione degli effetti conseguiti. Se il modello veicola comportamenti aggressivi, il bambino lo imiterà se riceverà un rinforzo, costituito dalla valutazione delle conseguenze favorevoli che ricadono sul modello, oppure sarà disincentivato se il modello conseguirà effetti negativi o dannosi. Altri autori hanno invocato altri meccanismi e in definitiva cosa sia all'opera quando si parla di imitazione non è ad oggi del tutto chiaro, tuttavia una predisposizione innata e un paradigma basato sul condizionamento sembrano essere i due fattori più implicati.
Gli studi longitudinali più accreditati in nordamerica, sono quelli di Huesmann (Huesmann et al., 1986), basati su un campione internazionale, che hanno mostrato una correlazione statisticamente significativa, per quanto modesta, tra visione di scene violente in infanzia e comportamenti aggressivi nella seconda decade di vita, in ragione di tre ore di TV al giorno, considerando una media di scene violente ogni ora di trasmissione in modo tale da escludere aspetti troppo generici. E' emerso che i bambini predisposti all'aggressività erano maggiormente inclini ad indulgere sulle scene violente e comunque i dati hanno mostrato un lieve ma generalizzato innalzamento del tasso di aggressività nel campione. Una ulteriore evidenza riguarda l'abituazione alle scene di violenza, con sviluppo di indifferenza emotiva per esposizione sovramassimale, una sorta di indurimento emozionale verso la violenza rappresentata, che si può riflettere nelle relazioni sociali.
Anche la pubblicità richiama stili e modelli aggressivi, con frequenti allusioni sessuali e messaggi subliminali, in cui l'aggressività maschile è sollecitata da provocazioni di femmine che sminuiscono il pretendente che non possiede il prodotto reclamizzato o alludono a competizioni tra appartenenti allo stesso sesso, in cui il rasoio per la barba, l'auto, il profumo, i fermenti lattici concentrati e il depilatore, rappresentano il mezzo con cui si vince la contesa sociale. Generalmente, il modello aggressivo proposto dalla pubblicità si rivela particolarmente subdolo per la sua modalità proteiforme e pervasiva, realizzando un coinvolgimento emozionale di notevole effetto, in assenza di esplicita consapevolezza.
La TV per motivi storici è il mezzo più indagato ma a partire dagli anni settanta, si sono diffusi i giochi elettronici, inizialmente tramite consolle in seguito tramite Internet e la telefonia mobile. I videogames rappresentano la principale fonte di diffusione di giochi interattivi e multimediali a contenuto violento e alcuni tra questi sono stati al centro del dibattito giornalistico e sociologico, perché tacciati di veicolare e sollecitare contenuti particolarmente violenti e più in generale, è stato sostenuto che i videogames favoriscono l'isolamento e la distorsione della rappresentazione della realtà.
Ad oggi, nonostante la scarsità degli studi metodologicamente affidabili, non esistono prove convincenti che i videogames violenti contribuiscano a innalzare i tassi di violenza dei fruitori nel medio e lungo periodo, in misura maggiore di quanto provoca la TV e il cinema (Dominick, 1984). Anderson e Dill (2000) invece avvalorano un effetto dei videogames ma la metodologia impiegata, basata su questionario di autovalutazione, che reputa affidabili le risposte dei soggetti riferite a stati mentali sperimentati in precedenza, è ritenuta affidabile solo da una minoranza di ricercatori.
In sintesi, nonostante la propensione a credere in una maggiore pericolosità dei giochi interattivi, perché il giocatore è più partecipe e coinvolto e si immedesima con più coerenza nel personaggio che manipola, avendone un controllo, non ci sono evidenze di una maggiore efficacia in confronto ai media tradizionali, pur nella necessità di ulteriori approfondimenti.
Se la visione televisiva di scene violente o la fruizione di videogiochi cruenti ha rivelato nel bambino debole associazione con la violenza espressa, ad eccezione di quelli con disturbi e con numerosi fattori di rischio, assistere a litigi e violenze coniugali dispiega effetti pervasivi sulla giovane personalità, come si vedrà nel prossimo capitolo.





Riferimenti bibliografici e letture consigliate

Introduzione

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